Fonte: Articolo di Paolo Venturi, Direttore AICCON, pubblicato su Corriere della Sera – Buone Notizie
Un patrimonio per uno scopo. In queste cinque parole si è sempre descritta la natura e la «funzione obiettivo» delle Fondazioni che diversamente dall’associazionismo e dall’imprenditorialità sociale, definiscono la loro missione partendo da uno stock di risorse orientate verso una finalità d’interesse generale. Nel corso del tempo l’esperienza delle fondazioni (oggi in Italia sono 7.441 e occupano oltre 100mila persone) si è fortemente dilatata ben oltre le note fondazioni di origine bancaria, ridefinendosi come «d’impresa» e poi «di partecipazione».
Nel corso degli ultimi 15 anni la spinta orientata alla responsabilità d’impresa e alla costruzione di governance multistakeholder per la gestione di attività in ambito culturale, ha lasciato il passo a una nuova genia di fondazioni che legano il proprio destino a quello delle comunità in cui son nate.
Le Fondazioni di comunità sono «istituzioni ibride» in quanto congiuntamente erogative e produttive, due funzioni connesse e correlate, non misurabili in termini di «trasferimento monetario» bensì di potenziamento territoriale.
Qui si gioca tanto la sfida della competitività quanto quella dell’inclusione, che chiedono di riallineare il codice della solidarietà a quello della produzione, dell’economia e del welfare. Le Fondazioni di comunità, attraverso una visione generativa della filantropia, operano una ricomposizione fra comunità della cura e comunità operosa, agendo come «lievito» per rammendare o potenziare l’ecologia di una comunità.
Pur riconoscendo una profonda differenza fra i modelli nati dall’esperienza pioneristica di Fondazione Cariplo rispetto ai più recenti promossi dalla Fondazione con il Sud, è possibile riconoscere un comune obiettivo: la creazione di un mutualismo comunitario capace di attivarsi per co-produrre soluzioni.
Le risorse messe a disposizione da queste istituzioni non sono solo flussi economici, ma progettualità complesse orientate al «capacity building» delle reti sociali e alla costruzione di luoghi aperti. Esperienze che superano la verticalità delle visioni settoriali, misurandosi con tematiche trasversali come l’abitare, l’inclusione, la rigenerazione, la cura e il lavoro. Una produzione profondamente sociale che costruisce il suo impatto soprattutto nel mobilitare e catalizzare risorse monetarie e non (beni immobili, competenze, volontariato…).
Questo è il motivo per cui il «patrimonio reputazionale» di queste istituzioni è importante tanto quello contabilizzato nel bilancio.
Socializzare, organizzare e attivare beneficiari, abitanti e istituzioni diverse intorno a sfide territoriali, è compito arduo se non si è «azionisti» di un territorio ossia se non lo si vive profondamente condividendone tanto i bisogni quanto le aspirazioni.
Troppo è il tempo che abbiamo sacrificato per i «beni privati», troppo poco quello per i «beni pubblici» e quasi inesistente è l’investimento dedicato ai «beni comuni». Le esperienze delle fondazioni di comunità ci dimostrano come sia possibile ri-bilanciare il «paniere dei beni» a favore di quelli «relazionali» e come lo sviluppo e il benessere, come scrive anche Rajan nel suo ultimo libro, passino da un nuovo rinascimento delle comunità.